martedì 6 agosto 2024

La domesticazione della vite.

 Giuliana Cattarossi, Giovanni Colugnati

Colugnati&Cattarossi, Partner Progetto “PER.RI.CON.E.”

finanziato dall'Assessorato Agricoltura attraverso  

la Misura 16 del PSR 2014-2022

 

La vite selvatica (Vitis vinifera subsp. silvestris) è una liana rampicante che, allo stato naturale, risale i tronchi degli alberi delle foreste, fino a raggiungerne la sommità, dove fiorisce producendo poi i propri acini. Gli uccelli apprezzano molto questi frutti, gustosi e facilmente accessibili, e cibandosene ne diffondono i semi, perpetuandone così la specie.

Se ci chiediamo che cosa spingesse l’uomo (o la donna) del Paleolitico ad arrampicarsi pericolosamente sugli alberi più alti della foresta, solo per riuscire a raccogliere queste bacche rosse, peraltro apprezzate dagli uccelli, ma povere di potere nutritivo, la risposta potrebbe essere che a spingerli fosse la “serendipità”, letteralmente la capacità di rilevare e interpretare correttamente un fenomeno occorso in modo del tutto casuale durante una ricerca scientifica orientata verso altri campi d'indagine, ossia la sorpresa di trovare una cosa inaspettata mentre se ne cerca un’altra.  

 


Questa almeno è l’idea alla base dell’“Ipotesi paleolitica” formulata dall’enoarcheologo Patrick McGovern (2003): attratti dai colori accattivanti degli acini, o semplicemente imitando gli uccelli, alcuni uomini primitivi raccolsero qualche grappolo d’uva selvatica, rimanendo sedotti dal suo gusto aspro e zuccherino. Probabilmente ne deposero diversi grappoli in qualche recipiente (di pelle, legno o pietra) e dopo qualche giorno, sotto il peso dei grappoli sovrastanti, dagli acini di quelli più bassi trasudò del succo. E poiché in natura i lieviti della fermentazione vivono proprio sulle bucce degli acini e sono presenti nell’aria sotto forma di spore, probabilmente quel succo produsse una sorta di vino spontaneo e primordiale a basso tenore alcolico.

Una volta mangiati tutti gli acini, il nostro antenato paleolitico assaggiò più o meno volontariamente quella bevanda, restando avvinto da una piacevole euforia che gli instillò un unico pensiero fisso: berne ancora.

In assenza di recipienti idonei, quel “Beaujolais nouveau dell’Età della pietra”, come l’ha definito scherzosamente McGovern, doveva essere consumato rapidamente, prima che si trasformasse in aceto.

Ma le cose cambiarono quando, tra 12 e 10 mila anni fa, le popolazioni umane divennero stanziali, abbandonando il nomadismo e dando vita a insediamenti permanenti che sorsero con la nascita dell’agricoltura.

Questo fenomeno, noto come la “rivoluzione neolitica”, ebbe come conseguenza l’aumento della densità di popolazione e la necessità di conservare il cibo più a lungo. E fra le altre cose, questi popoli neostanziali dovettero trovare dei modi per assicurarsi un approvvigionamento sicuro di uva.

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