Spinti di riflessione dal convegno sulle eccellenze enologiche dedicato alla figura del grande ampelografo favarese.
di Lillo Alaimo Di Loro
Tra i tanti importanti aspetti connessi al tema del convegno sulle eccellenze enologiche dedicato alla figura brillantemente di Antonio Mendola, trattati dai quotati relatori intervenuti, due meritano una particolare riflessione. Il primo riguarda le considerazioni sul panorama della biodiversità enologica a livello mondiale e la sua interazione con il paesaggio culturale nelle aree non tradizionali. Tema che nello specifico è stato trattato dall’enologo Gianluca Alaimo Di loro. Si può dire che il paesaggio culturale sia la migliore sintesi possibile tra la componente naturale di un contesto ambientale e l’azione dell’uomo. In altre parole, il risultato del modo in cui la fase “naturale” viene “modificata” dall’attività umana in conseguenza delle azioni necessarie all’esistenza dell’uomo stesso. Diversamente quel paesaggio, tutt’altro che culturale, diventerà soltanto lo scenario di una devastazione ambientale. Eventualità che purtroppo talvolta ricorre.
L’agricoltura è ciò che nel corso della storia dell’umanità ha modificato più estesamente il paesaggio naturale. Lo ha fatto però, per buona parte del suo percorso evolutivo di circa 10 mila anni in modo pressoché indolore. Almeno sino all’avvento dei grandi mezzi meccanici. La coltivazione della vite se vogliamo rappresenta la punta di diamante di questa grande avventura di trasformazione del paesaggio. La ricerca continua di nuove varietà per trovare risposte alle esigenze particolari dei luoghi, per adattarsi meglio alle condizioni di clima o di terreno o semplicemente per migliorare la qualità organolettica del prodotto finito, ha di fatto consentito di creare nei secoli quella variabilità di risposte che costituisce oggi il grande tesoro dell’agro-biodiversità. Ogni nuova varietà, ottenuta mediante il miglioramento genetico e la pazienza rappresenta una opportunità di racconto. Una pietra miliare del percorso evolutivo del paesaggio culturale nelle diverse aree della cosiddetta “cintura del vino”, quella grande fascia compresa tra 30 i 50° nord e dai 30 ai 40° sud della linea equatoriale dove si coltivano quasi 7 milioni di ha di vite e di cui il contesto italiano continua con orgoglio ad essere punto di riferimento e laboratorio per tutta l’area. Pensiamo alla sua enorme variabilità del panorama nazionale con i suoi 133.000 ha di vigneti biologici, oltre il 20% di tutta la superficie vitata a livello nazionale, il nostro Bel Paese rappresenta infatti la migliore performance mondiale anche rispetto alla biodiversità vinicola ed enologica applicata al sistema produttivo. Circa il 75% della sua superficie media nazionale vitata, infatti, è suddivisa tra gli 80 vitigni coltivati. Ottanta varietà su oltre 500 esistenti e diffusamente coltivati sulle tante piccole nicchie che costellano il “grande stivale” e le sue appendici.
Ancora più favorevole la situazione della Sicilia, micro continente nel cuore del mediterraneo, per quanto emerso chiaramente nel corso del convegno di Favara. Una cospicua fetta della biodiversità viticola italiana alloggia infatti proprio nelle tante contrade dell’Isola. Un grande sciame di varietà a bacca bianca e nera che nel corso dei secoli hanno contribuito a contaminare del profumo della storia mediterranea le aree della tradizione viticola nazionale ed europea prima e mondiale poi. Una condizione storica che lega l’evoluzione culturale di buona parte dei popoli del mondo alla cultura del vino e quindi della convivialità mediterranea e della sua dieta e nel complesso all’evoluzione del suo paesaggio. È il caso, per restringere il campo del racconto, del Grillo, cui da più parti si attribuisce la paternità proprio allo studioso Antonio Mendola, cui il convegno è stato dedicato. Nato dalla necessita di migliorare la qualità del vino Marsala, ibridando il Catarratto con il Moscato, questo vitigno noto alla letteratura sin dal 1873, ha finito per influenzare positivamente una buona fetta dell’enologia italiana e non solo; animando tutt’ora un dibattito acceso e ricco di stimoli tra storici e studiosi di ampelografia. Sicuramente “fratello” del ben più narrato Catarratto Moscato Cerletti”, ottenuto dal Mendola per ibridazione dei due importanti progenitori e dallo stesso descritto nel carattere e nell’origine, in più di una occasione. Ne parla diffusamente lo storico Filippo Sciara nel suo estratto della rivista Galleria, la rassegna semestrale di cultura e storia patria edita da Società Sicilia, nel dicembre 2020. Lo stesso Sciara, presente al convegno, sostiene per deduzione l’attribuzione della paternità del Grillo ad Antonio Mendola, ma riconosce, con rigore storico, la mancanza di sufficienti prove documentali. Mentre da altre parti si sostiene addirittura la sovrapponibilità del Grillo con il Moscato Cerletti stesso e quindi il superamento della questione dell’oggettività storica documentale facendo riferimento alla descrizione che proprio il Mendola fece del Moscato Cerletti. Insomma una questione aperta che anima un importante dibattito storico culturale di cui comunque la Sicilia intera, oltre che il Comune di Favara, dovrebbe farsi carico. Non tanto per rivendicare il “diritto d’autore” alla memoria e al territorio, quanto per affermare un principio universale di ben più esteso valore: “l’interazione tra il territorio e quella agro-biodiversità, che la dedizione quotidiana dei popoli e dei suoi interpreti più autentici e illuminati è riuscita a plasmare sulle creste e sugli anfratti del paesaggio ancestrale più aspro, rappresentano il cuore di quel racconto senza il quale il vino è solo acqua, alcol e cenere , esattamente come l’uomo che se privato della sua “umanita’ ” torna ad essere un qualsiasi animale, perso dentro la storia del suo tempo”.
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