venerdì 19 aprile 2024

Genome editing di piante agrarie e animali


  La Federazione italiana Scienze della Vita e la Società Italiana di Genetica Agraria rendono noto che   è stata ufficialmente autorizzata dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) la prima sperimentazione TEA -Tecniche di Evoluzione Assistita   con genome editing.  

Il tema è divisivo, molto divisivo, perchè come al solito ci sono e ci saranno chi ispirati dal "il fine giustifica i mezzi" ...qualsiasi mezzo!! e chi vorrebbe ritornare a consumare cibi  della tradizione contadina, genuini in primis, perchè come è noto per diversi millenni il contadino è stato disseminatore di vita,  senza la chimica e diavolerie similari.

 

 Di Vittoria Brambilla per SIGA – Società Italiana Genetica Agraria

Le tecniche di genome editing vengono utilizzate in diversi ambiti della scienza e hanno enormi potenzialità per l’agricoltura. Infatti, il genome editing permette di inserire piccoli cambiamenti all’interno dei genomi che possono ricreare alleli favorevoli nelle piante di interesse agrario.

CRISPR, la tecnica biomolecolare più versatile

Il genome editing è basato su tecniche biomolecolari.
La più nota e versatile, ad oggi, è la tecnica CRISPR, messa a punto nel 2012. Essa permette di tagliare il doppio filamento del DNA e di innescare due possibili vie di riparazione cellulare: la Non Homologous End Joining (NHEJ) e la Homology-Directed Repair (HDR).

L’enzima che taglia il DNA è una nucleasi sito-specifica e le due tipologie di riparazione portano a risultati differenti: la NHEJ inserisce frequentemente mutazioni indel (con questo termine ci riferiamo a inserzioni o delezioni molto piccole, di 1 o poche basi) che sono solitamente inserite per ottenere la perdita di funzione dei geni, mentre la HDR può essere provocata causando due tagli sul DNA a breve distanza e fornendo del DNA stampo che può essere usato per la riparazione della rottura grazie a sequenze di omologia esterne alla regione spaccata.

La differenza sostanzialmente è che, sfruttando la NHEJ ci si limita all’inserzione di indel, mentre tramite DNA stampo e HDR si può virtualmente inserire qualsiasi sequenza di DNA in modo sito specifico. Pertanto, le modifiche risultanti sono di entità diversa.

Base editing e prime editing

Quando le mutazioni da inserire devono essere specifiche, oltre alla HDR si può scegliere di ricorrere ad altre due evoluzioni della tecnica CRISPR, dove la nucleasi è stata modificata per riconoscere il DNA ma non tagliarlo.
La prima è il base editing, che è in grado di sostituire in modo specifico singole basi di DNA (ad esempio una Citosina in una Timina o una Adenosina in una Guanina).
L’altra è il prime editing, che permette di sostituire o solo inserire sequenze di DNA a piacimento. Dunque, se il base editing permette di inserire specifici polimorfismi a livello delle singole basi (SNPs), anche se in modo più specifico del NHEJ, il prime editing può essere usato per sostituire o aggiungere sequenze più lunghe.

Specie agrarie: tante possibilità di miglioramento genetico

Nelle specie agrarie, soprattutto in quelle ben caratterizzate come i cereali e alcune orticole, per molti geni sono state mappate negli anni varianti alleliche favorevoli per tratti legati al miglioramento genetico. Queste sono talvolta originate da indels, che causano la perdita di funzione di un gene, da SNPs specifici oppure da cambiamenti più grandi. Dunque, per poterle riprodurre tramite genome editing sarà necessario utilizzare approcci diversi: a volte basterà lasciare che la cellula ripari il suo DNA tramite NHEJ, altre volte sarà necessario ricorrere a tecniche più sofisticate come l’attivazione della HDR, il base editing o il prime editing. Se la prima tecnica è molto semplice e di facile ottenimento, le altre hanno una efficienza più bassa e maggiori restrizioni al loro utilizzo.

Il genome editing per ricerca di base o applicata per rendere il riso più resistente a una malattia

In laboratorio, nella maggior parte dei casi usiamo genome editing e NHEJ per inattivare i geni ma recentemente abbiamo anche inserito varianti tramite HDR, base editing e prime editing.

NHEJ è quello che ci serve tutte quelle volte che vogliamo capire la funzione di un gene perché, eliminandolo, possiamo vedere cosa accadrebbe alla pianta in sua assenza, ma è anche utile quando il fenotipo è dato dalla mancanza della funzione di uno o più geni. Nella letteratura scientifica si trovano molti geni interessanti che migliorano il fenotipo della pianta se inattivati. Uno di questi è il gene di suscettibilità alla malattia fungina del riso nota come “brusone”, che si chiama Pi21. Delezioni e anche mutazioni inattivanti in Pi21 causano una maggior resistenza a brusone.

Nel genoma di riso ci sono altri geni che hanno probabilmente una funzione simile a Pi21. Due di questi sono HMA1 e HMA2 che, se inattivati, migliorano la resistenza a brusone. La nostra prima applicazione di genome editing e NHEJ a scopo di miglioramento genetico risale a sei anni fa e ci ha portato ad ottenere delle piante di riso meno suscettibili a brusone tramite inattivazione di Pi21HMA1 e HMA2.

Ora serve la sperimentazione in campo

Le applicazioni del genome editing a scopo di ricerca di base non suscitano grandi problemi visto che le piante ottenute solitamente servono a fare esperimenti in laboratorio. Ma è fondamentale che le piante prodotte per il miglioramento genetico siano sperimentate in campo, dove poi potranno essere coltivate se si comporteranno in modo migliore delle loro corrispettive non genome edited. Per questo motivo, una volta ottenute piante dove Pi21HMA1 e HMA2 sono stati inattivati tramite l’introduzione di indels indotte da NHEJ, abbiamo cercato di sperimentarle in campo. Nonostante HDR e prime editing possano essere utilizzati per introdurre nel DNA delle piante sequenze di DNA che vengono da altri organismi o sono addirittura sintetiche, la maggior parte delle piante genome edited, tra cui le nostre resistenti a “brusone”, contengono indels del tutto simili a quelle che si trovano comunemente in natura.

Ma la scienza corre molto più veloce delle normative.

Visto che le applicazioni della biologia molecolare in agricoltura sono tra quelle viste con maggior sospetto dai non esperti, una sentenza della Corte di Giustizia Europea del luglio 2018 ha preso una posizione cautelativa concludendo che il genome editing avrebbe dovuto essere normato alla stregua degli OGM. Una sentenza di morte per il genome editing, visto che gli OGM non possono essere coltivati sulla maggior parte del suolo comunitario e non possono essere nemmeno seminati per scopi sperimentali in Italia.

Il punto sull’attualità

Col passare del tempo, complice la deregolamentazione progressiva da parte degli stati extraeuropei rispetto alle piante prodotte con genome editing, le pressioni degli scienziati e degli agricoltori che chiedevano nuove soluzioni hanno spinto la Commissione Europea a consultare esperti, portatori di interesse e cittadini per proporre, infine, a luglio 2023, una possibile normativa che separi OGM da genome editing.

Le piante fatte con NHEJ o base editing e quelle in cui HDR o prime editing non hanno permesso di introdurre sequenze più lunghe di 20 nucleotidi vengono inserite nella categoria NGT-1 (New Genomic Techniques tipo 1) mentre il tipo 2 rimane escluso dalla proposta. La proposta della Commissione è stata approvata anche dal Parlamento Europeo nel febbraio 2024. Ora manca un passaggio in Consiglio con l’opinione dei singoli stati membri ma siamo sempre più vicini ad una nuova normativa che sia basata sul tipo di prodotto rispetto al processo con cui è stata fatta.

Nel frattempo, alcuni stati hanno cercato di favorire la sperimentazione in campo di piante NGT-1 tra cui l’Italia che ha citato le sperimentazioni in campo di queste piante, chiamate in Italia anche TEA (o frutto delle “Tecniche di Evoluzione Assistita”) nella legge per contrastare la siccità del giugno 2023 e che ha snellito le pratiche per poter richiedere campi sperimentali.

Grazie a questa legge, che però ha validità solo fino a fine 2024, abbiamo fatto richiesta al Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica italiano di poter fare un campo sperimentale del nostro riso NGT-1 con indels in Pi21HMA1 e HMA2 in primavera-estate 2024. La nostra richiesta è arrivata esattamente 20 anni dopo l’ultima richiesta, bocciata, per mettere in campo limoni OGM dall’Università di Catania. Mentre aspettiamo una decisione del Ministero altri gruppi di ricerca italiani stanno seguendo la nostra strada.

Inaugurazione del 271° Anno Accademico dei Georgofili

 


Evento in diretta streaming

Collegamento a partire dalle ore 11.00

Dopo il saluto delle Autorità e la relazione del Presidente, terrà la prolusione inaugurale Michele Pasca-Raymondo, Presidente della Sezione Internazionale dei Georgofili, su:
- L’Agricoltura è ancora essenziale per lo sviluppo dell’Unione Europea?
Nel corso della Cerimonia, verranno consegnati i diplomi ai nuovi Accademici Emeriti, Ordinari e Corrispondenti stranieri.
Verranno inoltre conferiti il riconoscimento al “Merito Georgofilo” e il “Premio Antico Fattore, edizione 2024”.

Tra le personalità insignite il Dott. Antonino Drago Dirigente dell'Area 3  del Dipartimento Agricoltura

Biancomangiare nebroideo

                                            Prof Pietro Ficarra

Anche se biancomangiare e mostarde appena fatte stanno quasi al confine dell'universo dei dolci siciliani – dolci al cucchiaio, così in fondo li releghiamo - pure facevano parte di quella confidenza con quel sapore dolce che in Sicilia si acquisisce fin dalla più tenerissima età, un tempo come oggi. 

 

Ma sono ottimi dolci anche se biancomangiare e mostarde erano e rimangono preparazioni casalinghe a risparmio di zucchero: se nel biancomangiare ne va poco, soprattutto le seconde sfruttano ingredienti – mosto d'uva e fichidindia - che sono ricchi di zuccheri già nel frutto, per cui possono anche fare a meno di aggiunte. Onore al risparmio ma, naturalmente, tutto questo discorso è relativo, e solo in relazione al fatto che sui Nebrodi e ancor di più nel resto della Sicilia, il sapore dolce abbonda come nel resto dell'Isola (e svela l'antica confidenza). Sul biancomangiare o “bianco mangiare” si è scritto di tutto, considerata la sua presenza nella cucina e nella gastronomia dall'Alto Medioevo in poi, dai primi ricettari della cucina alta all'Artusi alle mille rielaborazioni dei nostri giorni. Non mancano quindi anche studi seri sul tema e questi convengono come, oltre alle infinite varianti della preparazione, in comune ci sia sostanzialmente solo l'elemento del colore bianco, che in epoca medievale era già di per sé una nota di raffinatezza. Gli alimenti usati all'epoca (e anche dopo) erano infatti i più disparati, non riconducibili neppure a un nucleo essenziale oltre alla nota di colore, andando dal riso alla polpa dei pesci. Per la versione siciliana, che poi è quella di riferimento per la dolciaria e per il senso comune che oggi si dà al biancomangiare, la versione più nota e semplice, si vuole, come troppe cose, di influenza araba, da noi come per il nostro tramite per il resto d'Europa. Non entro nel merito dell'origine, che è un discorso che mi convince poco, e credo sia più utile annotare che, come in alcune aree della Sicilia, soprattutto nel Sud-Est dell'Isola, è frequente la versione che sostituisce il latte vaccino con quello di mandorle. Il resto lo fa un addensante, spesso l'amido, un po' di zucchero e la buccia di limone. E il servizio facile nel piatto, talvolta però anche nello stampo, per un po' di eleganza che non guasta anche al più semplice dei dolci “al cucchiaio”, come nella foto. Aggiunte e variazioni sono infinite, sui Nebrodi come nel resto della Sicilia, ma la più frequente riguarda l'aggiunta della cannella, che anche sui Nebrodi non manca mai in tante preparazioni, anche in quelle in cui non te l'aspetti. Un peccato che ristorazione tipica e sagre popolari snobbino di solito il biancomangiare (anche le mostarde al cucchiaio del resto). Con l'eccezione di qualche sagra di antichi sapori in cui viene offerto giusto il biancomangiare, proprio con la cannella, come ad esempio, per quello che ho potuto visitare, a Ficarra. Quindi, visto il luogo e il mio cognome, non potevo non proporre altra immagine che una replica dalla cucina di casa!

giovedì 18 aprile 2024

La Sicilia che innova finalista del ‘Pei Agri Innovation Award’


NinoSutera

  

I progetti sono stati finanziati dal PSR 2014-2022 Misura 16 per l’Italia sono stati ammessi alla fase finale del “Pei Agri innovation award” 7 GO, di questi 2 sono siciliani: INPOSA – Innovazione nel pomodoro e sostenibilità in agricoltura Category Sustainable management of natural resources in farming practices); e   FICO Project EBioScart (Category Business models in supply chains)


Per votare visitate la pagina dedicata https://eu-cap-network.ec.europa.eu/campaign/eip-agri-innovation-awards-2024-nominees_en#paragraph-77186 



 Sarà possibile votare fino a venerdì 3 maggio. 

 


Viticoltura biologica la Sicilia da primato

                                   NinoSutera

Secondo Nomisma negli ultimi 12 mesi il 52% degli acquirenti abituali di vino in Italia ha preferito optare per un vino bio. I dati tratti dall’Osservatorio Wine Monitor parlano di un incremento del 20% nell’ultimo anno. Un trend che supera certamente gli ultimi numeri ufficiali che risalgono all’annata 2021. La buona notizia è stata oggetto di dibattito nel corso del focus “Vini biologici siciliani: primato italiano” organizzato dalla Regione Siciliana al Vinitaly di Verona.

Nell’Isola circa il 38% di superficie dedicata al bio sul totale della viticoltura regionale: su 103 mila ettari di vigneto oltre 37 mila sono condotti in bio . Ma non solo. Altri punti di forza del vigneto bio siciliano sono l’ampia biodiversità e la grande ricchezza varietale che permette di produrre un vino per ciascuna esigenza o per ciascun tipo di palato.


       Per Dario Cartabellotta, direttore generale del dipartimento regionale Agricoltura, il primato è frutto di una strategia adottata dalla Regione fin dall'attuazione dei Reg CEE 2078/92 e successivi, l’impegno dell’Assessorato a “fare squadra” con le imprese e gli addetti ai lavori, con adeguate azioni tecniche a supporto, attività informative, divulgative e promozionali. 

Il concetto, nel corso di una degustazione molto apprezzata dai wine lover presenti, è stato ripreso da Gianni Giardina, enologo Irvo, che ha addirittura alzato l’asticella: «Anche i vini siciliani convenzionali hanno dei parametri che rientrano nel regolamento comunitario sul biologico». Il riferimento è all’anidride solforosa: nei vini bio deve essere inferiore a 100 milligrammi al litro nei rossi e a 150 milligrammi nei bianchi. Da qui una proposta “provocatoria”: «l’assessorato regionale all’Agricoltura si faccia promotore del lancio di un dibattito a livello nazionale per abbassare i limiti dei solfiti per la certificazione biologica». .

Gaetano Aprile, direttore dell’Istituto regionale Vino e Olio (Irvo), ha descritto un fenomeno che vede la Sicilia staccare la Toscana e le Marche. «Siamo i primi in Italia e non è un caso: l’assessorato e l’Irvo hanno investito molto su questo comparto, partendo da un forte radicamento delle aziende siciliane nel settore, per una scelta strategica ma anche per la particolare vocazione del nostro territorio e del nostro prodotto che si prestano con naturalezza alla dimensione del bio».

Lillo Alaimo Di Loro, presidente di Italia Bio, ne ha approfittato per presentare la rassegna internazionale “Bio Divino” che si svolgerà a partire dal mese giugno per concludersi nella seconda metà di novembre a vendemmia conclusa. Un appuntamento quello di Bio Divino arrivato alla 19a edizione e che ha l’obiettivo di promuovere un comparto che in Italia è cresciuto parecchio negli ultimi anni.


mercoledì 17 aprile 2024

la viticoltura che verrà


                                                                                               Piera Conti

Tutti o quasi  sanno, che quando si fà promozione non c'è spazio per  le criticità del settore. Ma quando termina l'evento mondiale dell'anno, i problemi sono dietro la porta rigorosamente in fila indiana, a volte anche in ordine sparso. L'aumento dei costi di produzione,( acqua, bonifica, gasolio e  mezzi tecnici vari)  i danni della mancata produzione del 2023, le produzioni basse (al sud la produzione media per ettaro e inferiore del 50-60 % rispetto al nord. Le nuove sfide del vino dealcolizzato, e la costante riduzione dei consumi, fanno il resto. Il settore sopratutto al sud, ha bisogno di nuove risorse economiche per sopravvivere, e forse la vendemmia verde da sola non è sufficiente.  Allora in molti si chiedono,   qual'è la viticoltura che verrà?

 

              Il cambiamento climatico sta influenzando la resa dell’uva, la composizione e la qualità del vino. Di conseguenza, la geografia della produzione vinicola sta cambiando. In questa recensione, discutiamo le conseguenze dei cambiamenti di temperatura, precipitazioni, umidità, radiazioni e CO 2 sulla produzione globale di vino ed esploriamo le strategie di adattamento. Le attuali regioni vinicole si trovano principalmente alle medie latitudini (California, USA; Francia meridionale; Spagna settentrionale e Italia; Barossa, Australia; Stellenbosch, Sud Africa; e Mendoza, Argentina, tra gli altri), dove il clima è abbastanza caldo da consentire all'uva maturazione, ma senza calore eccessivo e relativamente asciutto per evitare una forte pressione fitosanitaria. 


Circa il 90% delle regioni vinicole tradizionali nelle regioni costiere e pianeggianti di Spagna, Italia, Grecia e California meridionale potrebbero essere a rischio di scomparire entro la fine del secolo a causa dell’eccessiva siccità e delle ondate di caldo più frequenti legate ai cambiamenti climatici. Le temperature più calde potrebbero aumentare l’idoneità per altre regioni (Stato di Washington, Oregon, Tasmania, Francia settentrionale) e stanno guidando l’emergere di nuove regioni vinicole, come il Regno Unito meridionale. L'entità di questi cambiamenti nell'idoneità dipende fortemente dal livello di aumento della temperatura. I produttori esistenti possono adattarsi a un certo livello di riscaldamento modificando il materiale vegetale (varietà e portinnesti), i sistemi di allevamento e la gestione dei vigneti. Tuttavia, questi adattamenti potrebbero non essere sufficienti a mantenere una produzione vinicola economicamente sostenibile in tutte le aree. La ricerca futura dovrebbe mirare a valutare l’impatto economico delle strategie di adattamento ai cambiamenti climatici applicate su larga scala.

Punti chiave

Il cambiamento climatico modifica le condizioni di produzione del vino e richiede un adattamento da parte dei coltivatori.

L’idoneità delle attuali superfici viticole sta cambiando e ci saranno vincitori e vinti. Nuove regioni vinicole appariranno in aree precedentemente inadatte, inclusa l’espansione in regioni collinari e aree naturali, sollevando problemi per la conservazione dell’ambiente.

Le temperature più elevate anticipano la fenologia (fasi principali del ciclo di crescita), spostando la maturazione dell’uva a una parte più calda dell’estate. Nella maggior parte delle regioni vinicole del mondo, negli ultimi 40 anni la vendemmia è aumentata di 2-3 settimane. Le conseguenti modifiche nella composizione dell'uva al momento della vendemmia cambiano la qualità e lo stile del vino.

Cambiare il materiale vegetale e le tecniche di coltivazione che ritardano la maturità sono strategie di adattamento efficaci a temperature più elevate fino a un certo livello di riscaldamento.

L’aumento della siccità riduce la resa e può comportare perdite di sostenibilità. L’uso di materiale vegetale resistente alla siccità e l’adozione di diversi sistemi di allevamento sono strategie di adattamento efficaci per far fronte alla diminuzione della disponibilità idrica. Anche l’irrigazione supplementare è un’opzione quando sono disponibili risorse di acqua dolce sostenibili.

Anche l’emergere di nuovi parassiti e malattie e il crescente verificarsi di eventi meteorologici estremi, come ondate di caldo, forti piogge e possibilmente grandine, mettono a dura prova la produzione di vino in alcune regioni. Al contrario, altre aree potrebbero trarre vantaggio da una riduzione della pressione di parassiti e malattie.

 

L'uva è la terza coltura   più preziosa al mondo, dopo patate e pomodori, con un valore alla produzione di 68 miliardi di dollari nel 2016  . La produzione globale nel 2020 è stata di 80 milioni di tonnellate di uva, raccolta da 7,4 milioni di ettari . Dell'uva prodotta, il 49% è stata trasformata in vino e liquori, mentre il 43% è stata consumata come uva fresca e l'8% come uva passa. Il vino, in quanto merce, può essere valutato in una fascia di prezzo che va da 3 dollari USA a oltre 1.000 dollari USA per bottiglia, a seconda della qualità e della reputazione . Pertanto, la sostenibilità finanziaria non si basa solo sull’equilibrio tra resa e costi di produzione, come per la maggior parte dei prodotti agricoli, ma anche sulla qualità e sulla reputazione. La regione di produzione è uno dei principali motori della reputazione e del valore . Questa variazione regionale nella qualità del vino non sorprende, perché il clima, o più precisamente la “giusta varietà nel giusto clima”, è un attributo ben identificato della produzione di vino premium  . L'effetto delle condizioni climatiche sulla composizione dell'uva al momento della raccolta (e quindi sulla composizione e qualità del vino) sembra essere ancora più importante del tipo di terreno  .

Con il cambiamento climatico, questa fondamentale influenza regionale sulla qualità e sullo stile del vino sta cambiando  . Ad esempio, in molte regioni come Bordeaux e l'Alsazia (Francia)  si è già osservato un sostanziale anticipo delle date di vendemmia e/o un aumento del tasso alcolico del vino . L’idoneità alla produzione del vino nelle regioni vitivinicole consolidate è destinata a cambiare nel corso del XXI secolo . Le pressioni derivanti dall’aumento della temperatura e dalla siccità potrebbero mettere a dura prova la produzione in regioni già calde e secche al punto da farne perdere l’idoneità, con enormi conseguenze sociali ed economiche negative. Le regioni vinicole alle medie latitudini potrebbero essere sempre più esposte agli eventi di gelate primaverili, a causa del germogliamento anticipato  L'aumento previsto della gravità delle grandinate può causare danni ai raccolti e alle piante Tuttavia, alcune di queste proiezioni sono eccessivamente pessimistiche, poiché non tengono conto della possibilità dei coltivatori di adattarsi alle mutevoli condizioni Ad esempio, le principali leve tecniche per l'adattamento includono cambiamenti nel materiale vegetale, nei sistemi di allevamento e/o nelle pratiche di gestione stagionale 

Inoltre, nuove regioni vitivinicole potrebbero emergere in aree precedentemente inadatte, poiché i climi freddi e subumidi registrano un aumento delle temperature, creando opportunità economiche ma anche minacciando gli habitat selvaggi quando queste regioni emergenti non derivano da terreni agricoli convertiti . Se questi nuovi vigneti verranno irrigati, ciò aumenterà la concorrenza per le risorse di acqua dolce. Anche la conversione dei terreni agricoli esistenti alla viticoltura significa meno terra coltivabile dedicata alla produzione alimentare.

 Sono stati pubblicati molti articoli sugli impatti regionali dei cambiamenti climatici sulla produzione di vino e il nostro obiettivo è quello di riunire questi risultati per produrre un quadro globale dei cambiamenti geografici del vino. Discutiamo degli impatti dei cambiamenti di temperatura, delle radiazioni, della disponibilità di acqua, dei parassiti e delle malattie e della CO 2 sulla viticoltura e sul vino. Vengono discusse le potenziali misure di adattamento e i loro limiti, ad esempio, i produttori esistenti possono adattarsi a un certo livello di riscaldamento modificando il materiale vegetale (varietà e portinnesti), i sistemi di allevamento e la gestione dei vigneti. Tuttavia, questi adattamenti potrebbero non essere sufficienti a mantenere una produzione vinicola economicamente sostenibile in tutte le aree. 


van Leeuwen, C., Sgubin, G., Bois, B. et al. Impatti dei cambiamenti climatici e adattamenti della produzione vitivinicola. Nat Rev Earth Environ 5 , 258–275 (2024) 

 

OLTRE GLI ALLEVAMENTI INTENSIVI

                                   Daniela Torretta 

 

Per una riconversione agro-ecologica della zootecnia

La Sicilia è una delle prime regioni italiane per numero di allevamenti estensivi  

Il nostro sistema di produzione di carne, basato sugli allevamenti intensivi, è insostenibile sia dal punto di vista ambientale che economico: divora risorse naturali e fondi pubblici, spinge fuori dal mercato le piccole aziende, e solo le più grandi si arricchiscono.


Per questo,  alcune Associazioni, hanno presentato una proposta di legge, sostenuta da un gruppo trasversale di parlamentari, per fermare con una moratoria l’espansione degli allevamenti intensivi e avviare un piano nazionale di riconversione agro-ecologica del settore zootecnico.

L’obiettivo è creare le condizioni per un sistema produttivo basato su piccola scala e con minori impatti, che garantisca margini di guadagno più equi per i produttori e l’accesso a cibi sani e di qualità.

Il sistema zootecnico europeo, compreso quello italiano, richiede una grande quantità di risorse naturali (due terzi dei terreni agricoli europei sono destinati all’alimentazione animale) e produce grandi quantità di sostanze inquinanti.

Gli impatti degli allevamenti intensivi, soprattutto nelle zone in cui queste attività sono più concentrate, come la Pianura Padana, sono ormai ampiamente documentati: riguardano principalmente le emissioni di ammoniaca (NH3) e il conseguente inquinamento da polveri fini (PM 2,5), responsabili ogni anno di migliaia di morti premature in Italia.

Le grandi quantità di azoto prodotto rappresentano inoltre un problema per l’inquinamento del suolo e dei corpi idrici, soprattutto nelle regioni ad alta densità zootecnica.

Da tempo il sistema zootecnico è soggetto a cicliche crisi in parte legate alle sue stesse caratteristiche: l’elevata dipendenza da input esterni (energia, mangimi, acqua) lo rende infatti particolarmente fragile, così come le condizioni di allevamento (tanti animali geneticamente simili rinchiusi in spazi ristretti) lo rendono vulnerabile alle epidemie sempre più frequenti. Questo ne fa un sistema non in grado di autosostenersi dal punto di vista economico, ma bisognoso di continui e ingenti aiuti pubblici, europei e nazionali.

La continua necessità di enormi quantità di mangimi rende il sistema zootecnico italiano fortemente dipendente dall’estero: quasi il 60% dei cereali e delle farine proteiche impiegate per produrre mangimi sono importati da Paesi extra UE, con un impatto ambientale enorme per la perdita di biodiversità a causa della distruzione delle foreste primarie e l’utilizzo di pesticidi, in particolare per la produzione di mais e soia in paesi del sud America come Argentina e Brasile.

Una domanda così alta non può trovare risposta in un aumento delle produzioni nazionali ed europee, dove circa 2⁄3 dei terreni agricoli sono già dedicati all’alimentazione animale, per questo è necessario cambiare il modello, superando il concetto di “allevamenti senza terra”.

La proposta di legge, promossa da Greenpeace Italia, ISDE, Lipu, Terra! e WWF, intende modificare in senso agroecologico proprio quelle caratteristiche del nostro sistema zootecnico che sono alla radice dell'insostenibilità ambientale ed economica del settore, a partire dai metodi di allevamento e dall’eccessivo numero di animali allevati, nonché dalla dipendenza dai prodotti farmaceutici (antibiotici), avendo come obiettivo anche quello di migliorare il benessere degli animali.

Scarica qui di seguito il testo della proposta di legge con la relazione illustrativa – “Disposizioni in materia di riconversione del settore zootecnico per la progressiva transizione agroecologica e il Manifesto Pubblico “Oltre gli allevamenti intensivi” 

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martedì 16 aprile 2024

Identità e ricchezza del vigneto Sicilia, il Vitrarolo

NinoSutera 
Presentate al Vinitaly le prime bottiglie da Vitrarolo, vinificate nel   Marsalese, vitigno resistente alla siccità e alle malattie che può produrre un vino versatile, sia di pronta beva che destinato all’invecchiamento.

 La ricerca iniziata nel 2003 dall’Assessorato regionale all’agricoltura nel solco del recupero della biodiversità della vite in Sicilia ha cominciato a dare i suoi frutti nel 2015   presentato a Expo e al  Vinitaly  il volume “Identità e ricchezza del vigneto Sicilia”  LINK

 La ricerca portata avanti dall’Assessorato, è unica nel suo genere ed ha permesso di individuare 70 varietà di vitigni antichi, 7 vitigni di interesse regionale, 13 di interesse locale, 12 tipologie minori e 12 cloni regolarmente omologati».


 L’attività principale di questa sperimentazione gestita dal Vivaio regionale intitolato a Federico Paulsen si svolge nel campo sperimentale di Marsala dove è raccolto tutto il germoplasma viticolo siciliano, le varietà autoctone, antiche e i cloni adatti all’omologazione. Inoltre, in collaborazione con Assovini, sono stati istituiti altri quattro campi sperimentali in varie parti della Sicilia nelle province di Palermo, Agrigento e Ragusa e parallelamente si procede su un altro filone di indagine sui portainnesti delle viti resistenti a salinità, calcare e siccità nei campi sperimentali sull’Etna (Nerello Mascalese), a Pantelleria (Zibibbo) e nelle zone di Marsala e Menfi (Grillo e Nero d’Avola), dove si stanno svolgendo dei test in luoghi estremi per verificare l’adattabilità e la resa con i vitigni autoctoni.

 I risultati di questa ricerca   non sono il punto di arrivo ma il punto di partenza. Le conoscenze acquisite permetteranno di programmare non solo il miglioramento del patrimonio viticolo regionale ma anche di introdurre vitigni unici e sconosciuti per la viticoltura siciliana di domani.

 Testimonianze di anziani agricoltori della zona in cui sono stati ritrovati alcuni ceppi, fanno derivare il nome Vitrarolo dalla caratteristica dei tralci che, nel periodo invernale, assumono un aspetto vitreo e si spezzano facilmente. La sua coltivazione è limitata a pochi ceppi, presenti nei vigneti più antichi dell area dei Nebrodi, questa limitata diffusione lo fa rientrare tra i vitigni reliquia recuperati grazie al Progetto della Regione Sicilia sulla piattaforma ampelografica regionale. È il vitigno reliquia sul quale hanno scommesso due famiglie del vino siciliane nel segno della valorizzazione delle varietà autoctone. Adesso, la ri-evoluzione del vino siciliano ha ridato dignità a un vitigno – il Vitraloro appunto – a bacca rossa, che gli studi enologici hanno incoronato a varietà ideale per la resistenza alla siccità e alle malattie, due caratteristiche che nel futuro avranno enorme importanza. I primi grappoli di Vitrarolo coltivati dall’azienda Pulizzi in contrada Marcanza in territorio di Marsala, e vinificate dalla cantina Fina sono state stappate nel corso della presentazione di questo nuovo vitigno al Padiglione 2 – Sicilia. “Parlare oggi di Vitrarolo – ha spiegato l’assessore regionale all’Agricoltura Luca Sammartino – vuol dire parlare delle radici storiche del nostro territorio esaltate negli anni da altri vitigni reliquia “cugini” di questa varietà alla quale auguro la stessa fortuna.   

All’incontro ha preso parte anche Dario Cartabellotta, direttore generale dell’assessorato all’Agricoltura che ha ricordato il pioniere della valorizzazione dei vitigni autoctoni siciliani Diego Planeta e la “follia omicida” dei viticoltori degli anni ’60 che eliminarono il Vitrarolo come altri vitigni reliquia dai loro vigneti. Attualmente il Vitrarolo è coltivato su duemila metri quadrati di terreno che hanno prodotto 20 quintali di uva per la produzione di 1.600 bottiglie divise a metà fra la famiglia Fina (vinificatori) e Pulizzi (conferitori delle uve). “E’ un vitigno che si comporta in maniera eccezionale – hanno raccontato Francesco e Pietro Pulizzi, padre e figlio, rispettivamente agronomo ed enologo dell’azienda – è molto resistente, sia alla siccità che alle malattie. La sua produzione è frutto della lungimiranza dell’Amministrazione regionale che ha sposato il progetto durato 20 anni. Nel 2019 il Vitrarolo è stato iscritto nel registro nazionale delle varietà vinicole 2018 iscrizione nel registro nazionale dell’anagrafe viticola”.

 

  

lunedì 15 aprile 2024

Agave che non ti aspetti.


Il dipartimento agricoltura dell’assessorato Agricoltura della Regione Siciliana, considerato l’interesse verso l’agave e più in generale verso le fibre vegetali, per favorire lo scambio di esperienze e conoscenze, ha istituito il Gruppo Tematico   all’interno della Rete Regionale Sistema della Conoscenza e dell’Innovazione in Agricoltura. In particolare avevamo già trattato di 
Proprietà antitumorali 
                                               Tequila, fibra tessile

ma anche  dei mille usi, con webinar  internazionali

Vediamo l'evoluzione dei ultimi anni, ma anche l'opportunità del cambiamento climatico



Quando il dio Quetzalcoatl, disperato per la morte dell'amata Mayahuel, seppellì i suoi resti dai quali germogliò la prima agave, non sospettava cosa sarebbe capitato poi. E cioè che la pianta sacra della mitologia azteca che qui chiamano maguey - l'agave che nel mondo conta quasi 300 specie, 111 endemiche del Messico sarebbe diventata simbolo di una cultura, frutto selvaggio della terra e fedele compagna dei campesinos che ne ricavano il pulque, una bevanda fermentata. Questo fino agli anni recenti, quando dopo il boom della distillazione del tequila, negli anni '80, l'agave è diventata prima una risorsa economica e oggi un'ossessione. Una febbre che divampa dallo Stato di Oaxaca e ha un nome evocativo, esotico e magico: mezcal.

L'agave che qui si trova ovunque, dalle aiuole spartitraffico ai sagrati delle chiese, fino ai pendii delle sierras - non è un semplice ornamento. La cosa è chiara fin dall'aeroporto di Oaxaca, dove tutti i cartelloni pubblicitari reclamizzano marchi di mezcal. Cosa sia il mezcal è presto detto: come il tequila (al maschile, alla faccia della schwa) è un distillato di agave. Ma se il tequila si produce solo dalla varietà Tequilana Weber e grazie al grande successo mondiale è ormai un prodotto standardizzato e industriale, il mezcal può essere prodotto da qualsiasi tipo di agave e finora è rimasto ancorato alla tradizione e all'artigianalità. Finora, appunto

Già, perché gli enormi guadagni procurati al non ricchissimo Messico dall'export di tequila hanno spinto il governo a promuovere anche il fratello maggiore, il mezcal. Da un lato è stato creato il «Consejo regulador de la calidad de mezcal», che ha steso un disciplinare di produzione piuttosto lasco e contribuito a far conoscere il distillato nel mondo (legioni di bartender vengono a Oaxaca in pellegrinaggio). Dall'altro lato, il governo ha finanziato sia i palenqueros i distillatori sia le comunità agricole, per estendere le coltivazioni di agave.

L'agave cresce spontanea e resiste alle condizioni estreme del Messico, tra siccità e altitudine, ma è anche coltivabile. Le specie adatte alla distillazione sono una trentina e sono molto diverse tra loro. Si va da quelle più selvatiche (silvestri) come il Tepeztate, enorme e scenografico, al Tobaziche che somiglia a un tronchetto della felicità, fino a quelle più resistenti e dalla resa maggiore, più adatte alla coltivazione, come l'Arroqueño o l'Espadin, che da solo rappresenta quasi il 90% della produzione.

Storicamente, il mezcal era la bevanda del pueblo: i contadini raccolgono le piante che trovano in natura, tagliano le foglie a colpi di machete e coa (una pala rotonda affilatissima) e ricavano delle piñas, i cuori del maguey che arrivano a pesare fino a 200 kg; le cuocciono in buche scavate nei cortili, le frantumano con una mazza di legno o con una macina di pietra trainata da un mulo, le lasciano a fermentare e poi le distillano in alambicchi di terracotta pre-colombiani chiamati olla de barro o in alambicchi di rame. Tutto molto artigianale, tutto per l'autoconsumo.

Da qualche anno, però, le cose stanno cambiando. Nel 2022 sono stati esportati in 81 Paesi 14,5 milioni di litri di mezcal contro i 1,4 milioni del 2014, e i produttori sono passati da 3mila a 25mila, oltre 600 solo ad Oaxaca. Si organizzano tour guidati e il turismo enogastronomico ha dato impulso all'economia locale, priva di industria, tanto che il Pil è un ottavo rispetto a quello di Città del Messico. Il mezcal è diventato di moda, quindi un business. Che se da un lato è oro per la popolazione, dall'altro crea inevitabili problemi, soprattutto ambientali.

Le regole blande hanno favorito l'ingresso nel mercato di colossi come José Cuervo e Diageo, che hanno aperto impianti e investito in una coltura intensiva di agave che sta cambiando il paesaggio, ora a rischio deforestazione. A questo si somma la raccolta indiscriminata dell'agave silvestre. Per fare mezcal, la pianta matura va colta prima che fiorisca e si riproduca. Il risultato è che otto specie selvatiche tra cui il Tobalà e il Papalomè sono a rischio estinzione, perché la loro scarsità ha costretto insetti e pipistrelli impollinatori a migrare.

La terza via al mezcal, tra l'autoconsumo e la produzione di massa, è il motivo per cui siamo qui. Il progetto si chiama «Palenqueros», lo ha ideato Luca Gargano, patron dell'azienda genovese Velier, tra i leader italiani della distribuzione di alcolici, e si propone di sostenere i piccoli produttori, battendosi per una gestione sostenibile di materie prime di qualità e rispettando i metodi tradizionali. Hector Vasquez, distillatore e grande conoscitore del maguey, è l'uomo del progetto «Palenqueros» ad Oaxaca e ci accompagna a visitare i produttori, sparsi tra le montagne e le campagne del Sud. Mentre il fuoristrada procede fra i cactus e gli avvoltoi volteggiano in un cielo da Messico e nuvole, racconta il loro approccio: «Il mezcal è una risorsa per questa parte del Paese più povera. Però va salvaguardato. Il mezcal piace perché è artigianale. Per questo Palenqueros punta sulla biodiversità e sulla valorizzazione di chi l'agave la conosce e la lavora, seguendo gli insegnamenti delle generazioni passate».

Don Juan, don Beto e suo figlio Onofre, don Baltazar, don Goyo e don Valente - questi ultimi recentemente scomparsi -, sono i paladini di questa crociata. I profili zapotechi segnati dalle rughe e dal lavoro nei campi, i baffi ironici, la conoscenza viscerale per agavi che a un occhio inesperto sembrano quasi tutte uguali. Ognuno ha una sua tecnica, segue un rito tramandato dagli abuelos, fatto di tempi e trucchi, attese e istinto. Gli strumenti di misurazione sono rari, di computer neppure l'ombra. Sanno che si fa così e basta. Toccano con la mano la terra che copre il forno per capire se l'agave deve cuocere tre o quattro giorni; ascoltano i tini per capire se il tepache, il liquido a 4% generato dalla fermentazione, è pronto per essere distillato; annusano per capire la porzione di distillazione da scartare e contano le perle che si creano quando si versa il mezcal nella scodella detta jicara per valutare la gradazione: se le bolle sono grandi, persistenti e creano una sorta di collana nella scodellina, il distillato è alla gradazione perfetta di 48-49%. «Altro che tecnologia e disciplinari», sorride Hector.

Non è semplice, ovviamente. La produzione artigianale ha dei costi che si riflettono sul consumatore finale: «Quasi tutti ormai utilizzano una macina meccanica continua Hector -, ma qui per Palenqueros tutti macinano con la mazza o a pietra, perché il risultato è aromaticamente migliore. Solo che la macchina impiega mezz'ora a fare il lavoro che quattro persone fanno in otto ore macinando a mano...». A questo si somma il crollo del prezzo dell'agave (-50% in meno di un anno), dovuto appunto all'enorme produzione intensiva. Bene per i bevitori poco consapevoli di tutto il mondo, meno per chi prova a rimanere fedele all'artigianalità e dovrà vedersela con concorrenti industriali sempre più economici, a discapito della qualità. Servirà pazienza per capire se la resistenza dei palenqueros, ostinati come il maguey, avrà la meglio. D'altronde, la resilienza va forte anche qui e lo si capisce da un proverbio di Oaxaca che sa di accettazione del destino: «Para todo mal, mezcal. Para todo bien, también.

 

 

 

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