martedì 7 marzo 2023
domenica 22 gennaio 2023
Vino&Salute
Che il vino, se consumato con moderazione ed intelligenza, non solo non faccia male, ma possa avere anche effetti benefici, soprattutto se associato ai pasti, ad uno stile di vita sano, e con un regime alimentare che è quello della dieta mediterranea, lo dicono evidenze empiriche millenaria, ma deve confermarlo sempre più la scienza. In un contesto mondiale dove le organizzazioni internazionali devono prendersi cura della salute pubblica, ma che a volte in maniera semplicistica rischiano di applicare in maniera universale ragionamenti che derivano da situazioni critiche di consumo smodato e di abuso, ovviamente dannosi, rischiando di penalizzare ingiustamente prodotti e contesti dove invece tali criticità non ci sono, o sono marginali e gestibili con altri metodi, che sono in primis la prevenzione e l’educazione al consumo. Da questo parte la riflessione di Luigi Moio, presidente dell’Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino (Oiv), al Simposio su “Vino e Salute” voluto da Assoenologi, il 13-14 gennaio a Napoli. Che, di seguito, vi riproponiamo in versione integrale.
Chi è Luigi Moio
Professore di enologia all’Università di
Napoli e direttore della sezione di scienze della vite e del vino della stessa
università, già vicepresidente dell’ente nel 2019.Da oltre 25 anni Luigi Moio
si occupa degli aspetti sensoriali, biochimici e tecnologici dell’aroma del
vino. È autore di circa 250 pubblicazioni scientifiche con un H-Index di 41
per Google Scholar, 32 per Scopus e 32 per WOS, con oltre 4800 (Google
Scholar), 2800 (Scopus) e 2900 (WOS) citazioni. Dal 1998 è esperto scientifico
del Ministero delle Politiche agricole. Dal 2009 al 2014 è stato Presidente del
Gruppo di Esperti Tecnologici dell’Oiv e dal 2015 al 2018 della Commissione
Enologica. È membro dell’Accademia dei Georgofili e dell’Accademia
Italiana della Vite e del Vino.
“L’argomento
“Vino e salute” è un dibattito senza fine. Un binomio che anima un confronto
che è cambiato continuamente nel tempo, fortemente influenzato dall’evoluzione
dell’umanità, dal progresso e dall’avanzamento delle conoscenze. In
un’epoca non molto distante dalla nostra, in cui il principale problema era la
sicurezza alimentare, Louis Pasteur scriveva, nel suo straordinario libro sulle
malattie del vino pubblicato nel 1866, che “il vino è la più igienica e sana
delle bevande”. Ovviamente questa affermazione va contestualizzata nel suo
tempo, ma c’è molta verità in quanto la presenza di alcol, tra l’altro non
eccessiva nel vino, combinata all’acidità della bevanda, ne evita la
contaminazione da parte di microrganismi letali alla salute umana. Per
millenni, infatti, il vino è stato utilizzato per idratarsi in modo sicuro
visto che per 1’85-87% è composto da acqua. L’acqua invece era molto
pericolosa. Allo stesso a Pasteur muoiono ben tre figlie (2, 9, e 15
anni) di febbre tifoide (causata dal batterio Salmonella Typhi) ed è probabile
che queste tremende tragedie personali gli abbiano dato ancora maggiore impulso
nel condurre i suoi straordinari studi diretti a salvare le persone dalle
malattie contagiose. È del tutto evidente, ma ciò è riportato già dagli
scrittori e dai poeti dell’antichità classica, che l’eccesso provoca dei
problemi seri. Infatti, tra il 1920 ed il 1933, durante il periodo del
proibizionismo negli Stati Uniti, anche il vino venne colpevolizzato. In quegli
anni venne sancito il bando sulla fabbricazione, vendita, importazione e
trasporto di alcool. Ma come è noto la storia non è andata nella direzione di
diminuire il consumo di massa che era radicato nelle tradizioni e nelle
abitudini degli americani. Al contrario, secondo le statistiche dell’epoca
della Corte di Giustizia, aumentarono furti, rapine, evasione fiscale,
corruzione, contrabbando, e triplicò il numero degli alcolisti rispetto al
periodo precedente. Ovviamente, in quel periodo, in modo del tutto
comprensibile, l’intera filiera vitivinicola, reagì in modo forte al
proibizionismo per difendere il vino, evidenziando in modo fermo gli aspetti
che rendono questa bevanda millenaria incomparabile a qualsiasi altra bevanda
alcolica.
Infatti, come più volte ho ricordato in vari interventi nazionali ed
internazionali, il vino, a differenza di altre bevande, è un prodotto mono
ingrediente. Tutti i componenti necessari per ottenerlo sono in armonia all’interno
del grappolo d’uva, e l’alcol in esso presente si forma in modo naturale
durante la fermentazione raggiungendo livelli non eccessivi. Dunque, come
bevanda contenente alcol è unica, per il modo in cui viene ottenuta, per i
forti legami con i territori di origine dei quali è un formidabile
ambasciatore, per il modo in cui viene consumato, in piccoli sorsi in
abbinamento ai pasti, per la cultura e per le forti tradizioni ad esso legate.
In questo contesto l’Oiv, che ho l’onore di presiedere, ha svolto e svolge un
ruolo molto importante. La sua nascita poggia su una lunga storia scientifica e
diplomatica che inizia per affrontare e risolvere il problema della filossera
ma che, successivamente, proprio durante il proibizionismo, subisce una forte
accelerazione, perchè tra gli alcolici banditi c’era anche il vino, con una
storia antica ed una natura completamente differente, che doveva essere
assolutamente tutelata. Sin dall’inizio gli obiettivi principali dell’Oiv, sono
stati sempre la tutela e la custodia dell’integrità del vino e del suo forte
legame con i territori di origine, oltre all’altro fine, importantissimo e
sempre attualissimo, di favorire ed agevolare gli scambi commerciali tra i
Paesi suggerendo regole condivise. Addirittura, il primo articolo dell’atto
costitutivo dell’Oiv, risalente al 1924 dichiara che l’organizzazione doveva
raccogliere, studiare e pubblicare informazioni che dimostrano gli effetti
benefici del vino.
Infatti, per dare un impulso immediato e concreto alla diffusione ed alla promozione
della cultura del vino nel 1930 nasce “Le Prix de l’Oiv”. Un premio che
attraverso un appello pubblico invita alla candidatura di articoli scientifici,
testi, libri in favore del vino e dei suoi aspetti benefici sulla salute che in
quell’epoca era intitolato: “La Verità sul Vino”. Oggi questo premio è il più
antico a livello mondiale ed in 77 edizioni è stato conferito agli autori di
più di 800 libri su argomenti inerenti ai settori, della viticoltura,
l’enologia, l’economia ed il diritto, la storia e la letteratura, il vino ed i
suoi territori, il vino e la salute.
Gli studi e le ricerche su questa tematica sono andati avanti per decenni
fino alla clamorosa notizia del 1991, quando l’ epidemiologo francese Serge
Renaud, in un’intervista ad una rete televisiva americana, discutendo del
legame tra coronopatie e assunzione di lipidi, parlò per la prima volta di
“paradosso francese” o di “effetto Bordeaux”. Ossia: bere vino, specialmente
rosso, determina una significativa riduzione di malattie cardiovascolari anche
se la dieta è ricca di lipidi. Studi successivi misero in evidenza che
probabilmente questo effetto positivo era correlato alla presenza di
resveratrolo. In quegli anni un mio collega ricercatore mi portò dagli Stati
Uniti un flaconcino contenete capsule rigide di resveratrolo, recuperato dagli
scarti di Lavorazione del vino rosso.Ma l’annuncio di Renaud, provocò
l’immediata reazione dell’Oms che pose il seguente quesito: qual è la quantità
di vino da bere per preservarci da complicazioni cardiovascolari e nel contempo
evitare le malattie epatiche? Da quegli anni gli studi scientifici sui composti
presenti nel vino con un ruolo funzionare positivo sull’organismo si sono
moltiplicati in modo esponenziale, ed in più di trent’anni le pubblicazioni
scientifiche prodotte sull’argomento vino e salute sono giunte a 236.068.
Suddivise tra vino e salute (58.443), vino e resveratrolo (59 456), vino e
longevità (4.251), vino e ruolo funzionale dei polifenoli (83.925), vino e
problematiche cardiovascolari (20.586): vino e dieta mediterranea (5.970), vino
e prevenzione di degenerazioni neurologiche (3.437).
Lo
scopo comune di questa enorme mole di lavori scientifici è stato quello di
dimostrare gli effetti benefici del vino assunto in modo responsabile ed in dosi
moderate nell’ambito di uno stile di vita sano. Dunque la documentazione
scientifica a sostegno degli effetti benefici del vino è davvero molto corposa
e robusta per produrre rapporti di sintesi minuziosi e dettagliati, con i quali
discutere e confrontarsi nelle commissioni opportune a livello europeo. Ma i
tempi cambiano velocemente, e le informazioni corrono altrettanto rapidamente
perdendo la loro correttezza per strada. Ed oggi una parte dell’umanità, forse
quella più fortunata, ha messo la salute al centro della vita. L’aspettativa di
vita negli ultimi cento anni è quasi raddoppiata, da poco meno di quarant’anni
a più di ottanta, variando in funzione del paese. La salute è diventato
l’obiettivo fondamentale di vita fino al paradosso di “non vivere più”
rinunciando e mettendo sotto accusa, per esempio, carne. zucchero, sale, cibi
grassi in generale, sistemi di cottura, e così via. Cosi nel piano di
prevenzione della salute pubblica globale a livello europeo, come oramai è
ampiamente noto, anche l’alcol e stato incluso e, insieme all’alcol, tutte le
bevande che lo contengono, compreso il vino. Per cui la preoccupazione
legittima è legata alle conseguenze del rapporto sulla “lotta contro il cancro”
della commissione speciale del Parlamento europeo sulla lotta contro il cancro
(Beating Cancer - meglio nota come commissione Beca) nella quale si generalizza
sugli effetti cancerogeni dell’alcol senza alcuna distinzione tra vino e
superalcolici e, soprattutto, senza discernere tra “consumo responsabile” e “consumo
dannoso o abuso”. Ciò perché il documento Beca è basato su uno studio che
sostiene l’ipotesi di “nessun livello sicuro” di consumo di alcol, pubblicato
su “The Lancet” nel 2018 e che tra l’altro è stato fortemente criticato dalla
comunità scientifica per alcuni difetti di analisi.
Un modello basato su ipotesi che non prendono in considerazione lo stile di
vita, e di conseguenza non può essere l’unica base per trarre conclusioni sul
consumo di alcol e il rischio di cancro. Non ci sono infatti dati scientifici
univoci a sostegno di questa correlazione in quanto il cancro e una malattia
multifattoriale, e i fattori di rischio dovrebbero essere valutati nel contesto
di modelli culturali, del bere, del mangiare e dello stile di vita. Molte
evidenze scientifiche, invece, indicano che bere vino con moderazione,
associato al pasto, come parte di uno stile di vita sano e di una dieta
equilibrata può contribuire a una maggiore aspettativa di vita. Tra l’altro
proprio l’Oms definisce la salute come “uno stato di completo benessere fisico,
mentale e sociale”. Per cui non è solo l’assenza di malattie e/o d’infermità da
valutare, ma è necessario considerate tutte le dimensioni della salute. Ossia
tutti gli aspetti che portano al benessere dell’individuo e di cui spesso si
parla poco in alcuni studi. Il vino in un contesto di vita individuale e
sociale sana, e nell’ambito di un consumo responsabile e moderato, può
contribuire a questi obiettivi. Per scegliere una bottiglia di vino da
porre al centro di una tavola è necessario disporre di informazioni precise sul
cibo con il quale degustarlo ed avviare una serie di riflessioni che
coinvolgono i ricordi, la geografia, i luoghi, i profumi, i sapori, la varietà
di uva, la composizione dei suoli e la loro esposizione, e tanti altri fattori
che rendono unico quel vino ed il momento in cui viene degustato. Di
conseguenza il vino può assumere, perfino, il ruolo di mezzo educativo e questo
suo aspetto pedagogico e estremamente interessante in quanto come prima
conseguenza determina la rimozione virtuale dell’alcol dalla bevanda. Tali
peculiarità del vino, come ho già accennato, lo distanziano completamente da
qualsiasi altra bevanda alcolica.
Ma lo scenario odierno con il quale confrontarsi è cambiato velocemente: è
diminuita l’età dei consumatori quotidiani, è aumentato il consumo fuori pasto,
sono aumentate le morti dirette ed indirette causate dagli effetti psicotropici
dell’alcol. Il vino ha assunto una diffusione planetaria, imponendosi anche in
Paesi senza la nostra tradizione e cultura verso questa bevanda ne quali e
necessario operare precisi programmi di educazione e formazione al vino. E
probabile che questo nuovo scenario abbia influenzato alcune decisioni alla
base del piano antialcol che si è posto come obiettivo la riduzione dei consumi
del 10% per la fine del 2025.
Nel riflettere a fondo su questa problematica, spesso, penso che l’alcol sia
stato inserito ad hoc nel documento di lotta al cancro per la forte azione
deterrente che la parola cancro esercita sulla popolazione, per cercare di
ridurre il consumo soprattutto in coloro che non hanno alcuna responsabilità e
disciplina nei confronti delle bevande alcoliche.
Ma più che di riduzione dei consumi, a mio avviso, è necessario parlare di
razionalizzazione, di consumo intelligente, di consumo responsabile. È l’unico
modo per eludere una delegittimazione del vino che spianerebbe la strada ai
movimenti antialcol i quali oscurerebbero la verità sul vino, determinando più
un danno che un aiuto alla salute pubblica. Tuttavia, la strategia di tutela
dell’integrità del vino e di una sua gusta difesa non può essere impostata
esclusivamente sulle solite, anche se validissime ma non sufficienti,
argomentazioni basate sulla storia, la tradizione, gli aspetti culturali,
paesaggistici, di tradizione e così via. Ai dati scientifici è necessario
rispondere con altrettante evidenze scientifiche e tanta ragionevolezza ed il
vino ha tutte le carte in regola per percorrere questa strada e sconfiggere
agevolmente questo ennesimo attacco. Occorre, come ormai tutti diciamo,
distinguere l’abuso dal consumo responsabile. Ma questo concetto non può essere
recepito se non si avviano processi di educazione per coloro che si avvicinano
alla bevanda. Forse per i Paesi storicamente produttori, il consumo è di norma
più corretto perché vino e vigna fanno parte di una elevata tradizione
culturale. Ma in generale e per tanti altri Paesi occorre attivare
programmi di formazione ed educazione al vino che facciano comprendere
l’altissima valenza culturale di questo prodotto, sostenendo il consumo
responsabile soprattutto durante i pasti ed all’interno di uno stile di vita
sano. È necessario lavorare in modo incisivo su una appropriata e corretta
informazione verso i consumatori. In modo estremamente chiaro, senza
tergiversare, coinvolgendo tutti gli attori della filiera dai produttori, ai
consorzi, alle associazioni di categoria ed ovviamente alle istituzioni.
Tutti uniti, dobbiamo comunicare in modo corretto, non per nascondere, ma per
aiutare a capire. perchè anche se si tratta di argomenti complessi, se spiegati
bene ed in modo semplice e chiaro, è possibile ottenere il risultato di
valorizzare ancora di più l’unicità e la straordinarietà del vino, che in poco
più di 8.000 anni, per la sua naturalità e la sua straordinaria diversità
legata ai territori di origine, ha conquistato il mondo intero. Tra l’altro
questo e l’unico modo per evitare di sentirsi dire di non preoccuparsi della
salute dei consumatori, anzi, è esattamente il contrario, basti pensare al grande
lavoro svolto dagli esperti scientifici dell’Oiv nella commissione sicurezza e
salute, istituita circa trent’anni fa. Prima di concludere un ultimo
riferimento all’Oiv che, come ho detto, all’inizio di questo mio intervento, è
il risultato di una lunga storia scientifica e diplomatica. Nel 2024 si
celebrerà l’anniversario dei cento anni dalla fondazione, ed alla luce di
questi nuovi scenari che si prospettano, l’azione di questa organizzazione
intergovernativa e di tutti i Paesi membri sarà ancora più attenta e
determinata nel far presente nelle sedi opportune e nelle varie commissioni
presso le altre organizzazioni intergovernative, le ragioni dirette a
proteggere e custodire l’unicità del vino, come bevanda simbolo della
convivialità e di modelli di vita sana, contrastando in modo fermo ed unitario
qualsiasi azione che possa condurre ad una sua ingiusta ed inopportuna
delegittimazione”
mercoledì 18 gennaio 2023
Rete Italiana per le Politiche Locali del Cibo
Pratiche e Progetti: Territori, Nuove Economie, Culture e Società in Transizione verso Sistemi del Cibo Sostenibili
Il Dipartimento Agricoltura dell'Assessorato Regionale all'Agricoltura partecipa alle iniziative promosse dalla Rete attraverso tavoli di lavoro che affrontano temi chiave come:
- Cibo e paesaggio
- Lotta agli sprechi e alle perdite alimentari
- Comunità e distretti per le politiche locali del cibo
- Rete Atlanti del Cibo
- Consumi, stili di vita e sostenibilità
- Mense e ristorazione collettiva
- Povertà alimentare
- Cibo e rigenerazione urbana
- Progetti europei
- Valutazione delle politiche locali del cibo
- Food System Summit e relazioni internazionali
Manifesto della Rete
Premessa: Perché una Rete Italiana per le Politiche Locali del Cibo
L’idea di creare una rete italiana incentrata sulle politiche locali del cibo nasce dalla necessità di affrontare le criticità dei sistemi agroalimentari globalizzati e favorire una transizione verso sistemi alimentari sostenibili e radicati nei territori. La Rete, istituita il 15 gennaio 2018 a Roma, si propone di sviluppare una “via italiana” alle politiche locali del cibo, valorizzando le specificità territoriali e culturali.
Politiche locali del cibo: principi guida
-
Pluralità delle politiche: Il termine “politiche” al plurale riflette l’eterogeneità dei contesti locali e la necessità di integrare diverse competenze e prospettive. Le politiche locali del cibo includono approcci formali e informali, dall’alto e dal basso, e puntano alla trasformazione sostenibile dei sistemi alimentari.
-
Dimensione locale: Le politiche locali del cibo devono superare la dicotomia urbano-rurale, integrando il continuum territoriale e le specificità socio-culturali. Esse promuovono una regolazione autonoma e radicata nei territori, rispettando i processi culturali e ambientali.
-
Cibo come bene comune: Il cibo non è una semplice merce, ma un elemento centrale per il benessere collettivo. Le politiche locali devono considerare il cibo nella sua complessità, includendo valori nutrizionali, culturali, sociali, ambientali ed economici.
Visione e Contesto
Oggi, il sistema alimentare globale presenta disconnessioni tra produzione e consumo, con conseguenze negative per l’ambiente, la salute e la giustizia sociale. Per affrontare queste sfide, è necessario promuovere sistemi locali del cibo equi e sostenibili, che:
- Migliorino la qualità nutrizionale e salutistica del cibo.
- Riconnettano produzione e consumo.
- Diffondano cultura alimentare e cittadinanza alimentare.
- Rispettino le risorse ambientali e la dignità del lavoro.
- Promuovano la sovranità e la democrazia alimentare.
Le politiche locali del cibo devono superare approcci settoriali, integrando dimensioni economiche, sociali e ambientali e favorendo una governance democratica che coinvolga tutti gli attori della società.
Obiettivi della Rete
La Rete si propone di:
- Connettere idee, iniziative e ricerche sui temi del cibo.
- Favorire il dialogo tra ricerca, politica e società civile.
- Promuovere progetti di ricerca-azione radicati nei territori.
- Orientare e stimolare le amministrazioni pubbliche nell’attuazione di politiche del cibo.
- Collaborare con altre reti nazionali e internazionali per condividere esperienze e buone pratiche.
- Sensibilizzare l’opinione pubblica e la politica sulle necessità di un sistema alimentare sostenibile.
Attività della Rete
La Rete funge da piattaforma per:
- Condivisione di ricerche, documenti e pubblicazioni.
- Organizzazione di incontri, convegni, seminari e workshop.
- Dialogo con altre reti internazionali.
- Monitoraggio e valutazione delle politiche locali del cibo.
- Promozione di iniziative di sensibilizzazione e animazione culturale sui temi del cibo.
Conclusione
La Rete Italiana per le Politiche Locali del Cibo si configura come un luogo di incontro e confronto democratico, volto a promuovere la transizione verso sistemi alimentari sostenibili, resilienti e radicati nei territori. Attraverso il coinvolgimento di ricercatori, amministratori, attivisti e cittadini, la Rete mira a costruire un futuro alimentare equo e rispettoso delle risorse e delle comunità.
martedì 20 dicembre 2022
Le prelibatezze identitarie di Sciacca
NinoSutera
I due ambienti dove nacque la tradizione dolciaria siciliana furono la famiglia contadina e i monasteri. A Sciacca un tempo vi furono ben quattro monasteri, di cui il Monastero di Santa Maria dell’Itria, detto Badia Grande, ebbe grande importanza nel panorama monastico dell’Isola. A questo monastero sono legate due produzioni dolciarie tipiche saccensi: l’Ovamurina e le Cucchitedde. Al di là delle leggende o della storia di tali dolci, essi furono, come accadeva sovente in altri monasteri della Sicilia, mezzo di comunicazione tra chi dentro produceva i dolci e chi fuori li acquistava attraverso la “ruota”. Il valore del prodotto identitario, ed è il caso dei prodotti De.Co. sta nella storia o nella leggenda narrante della tradizione identitaria, diversamente si tratta solo un mero prodotto commerciale, (tipico) ottimo, ma senza ne anima, ne storia, senza Genius Loci.
Con questi presupposti è nato il percorso Borghi GeniusLoci De.Co, elaborato dalla Libera università rurale dei saperi e dei sapori onlus, inserito tra gli esempi virtuosi del Forum italiano dei movimenti per la terra e il paesaggio e presentato al Poster Session del Forum Pa di Roma, all’Expo di Milano. Un percorso che prevede un modello dove gli elementi essenziali di relazionalità sono territorio-tradizioni-tipicità-tracciabilità-trasparenza che rappresentano la vera componente innovativa, ma soprattutto rispettose delle direttive nazionali e comunitarie in materia. Va ricordato che i siciliani hanno avuto storicamente una propensione al consumo di dolci, tanto che in nessun’altra regione ne fu mai inventata, creata, realizzata un così grande quantità. L’abbondanza in fatto di dolci è legata alla ricchezza di prodotti che ci offre il territorio: farina, mandorla, pistacchio, miele, ricotta, e via dicendo. Tutti prodotti che rappresentano gli elementi principali nella preparazione di molti dolci siciliani.
Alcuni di questi prodotti sono stati introdotti in Sicilia dagli Arabi. Il primo ambiente in cui nasce la tradizione dolciaria siciliana è la famiglia contadina. Un’altra fonte di ispirazione dei dolci siciliani è l’ambiente monastico. Anticamente nei monasteri siciliani, di cui 21 nella sola Palermo, venivano preparate le specialità chiamate li cusi duci di li batii specialità tutt’oggi apprezzate e ricercate e che ora vengono prodotte dalle famiglie e dalle abili mani dei pasticceri. L’ambiente monastico, luogo di silenzio, dove le suore si dedicavano alla preghiera e alla contemplazione, era anche luogo dove le suore, in particolare quelle di clausura, si dedicavano alla preparazione di dolci, delle cui ricette erano alquanto gelose, tanto che molte di esse sono andate perdute. In Sicilia ogni festa ha il suo peculiare aspetto gastronomico.
Dagli Arabi, infatti, l’arte di preparare dolci si è trasferita nei conventi, dove è stata portata avanti con entusiasmo, talvolta anche eccessivo: è storico il provvedimento del Sinodo Diocesano di Mazara del Vallo che nel 1575 proibì la preparazione di dolci nei conventi, per non distrarre le monache dalle pratiche religiose durante la Settimana Santa. Nella città di Sciacca vi erano i monasteri dove le suore di clausura erano solite preparare dolci: il Monastero della Badia Grande, il Monastero di Santa Caterina, il Monastero delle Giummare e il Monastero della Chiesa di Loreto (o Badia Piccola). Tra i principali dolci, simbolo della pasticceria saccense, vi sono Ova murine e Cucchitedde.
Le ovamurina
Sono a base di uova, cacao amaro, mandorle tostate e poi schiaccciate con il matterello: nella preparazione veniva fatta come una frittatina, simile alla crepes, in cui le mandorle schiacciate appaiono come macchie bianche nel composto scuro, ricordando così il pesce murina da cui appunto il dolce prende il nome. Queste frittatine poi, arrotolate come un cannellone, vengono farcite con una crema al latte, comunemente chiamato biancomangiare aromatizzato con cannella e zuccata e pezzetti di cioccolato fondente. La ricetta è stata inventata dalle monache del convento della Badia Grande come alternativa estiva ai cannoli: la ricotta con il caldo non si conserva bene, così si è pensato a un ripieno di crema di latte (e a un altro involucro). Il nome? Le «ova» sono quelle della frittatina, che è scura, «murina» in siciliano
Le cucchitedde
Anche le cucchitedde sono a base di mandorle sgusciate e spellate, dopo essere fatte asciugare per oltre 24 ore in modo da perdere tutta l’umidità. Il tempo dunque era elemento importante, oltre l’amore nel realizzarle. Le mandorle ben asciutte poi venivano macinate e cucinate nello zucchero fatto sciogliere e portato alla cotture del filo grosso, cioè fatto sciogliere con cottura di pochi minuti e successivamente si stendeva su un piano di lavoro di marmo, non appena tiepidi si iniziava a lavorare l’impasto con la spatola di legno. La pasta di mandorla, dopo essere stata impastata e lasciata raffreddata, si prende a palline e schiacciandola con le mani si riempie di zuccata di zucca bianca, ovvero quella di tenerume come viene chiamata nel linguaggio comune. Racchiusa questa cucchitella, le si dà una forma ovale a cucchiaio.
In alcune versioni si parla di dolce a cui la forma veniva data con due cucchiai, ma le monache di clausura facevano anche delle forme a cuoricini quando erano richieste dai fidanzati. La ghiaccia reale o velata veniva posta sopra i cucchitelli, un’altra versione è quella con lo zucchero a velo e un’altra ancora è la cucchitella nera, preparata con cacao. Dopo il 1860, con l’incorporazione dei beni ecclesiastici da parte dello Stato, la preparazione dei dolci e la vendita divenne l’unica fonte di sostentamento per le suore e alcune di esse continuarono vita monacale fuori dai conventi, in abitazione private.
martedì 29 novembre 2022
ERP-italy European Rural Parliament Italy
Al via i lavori del Parlamento Rurale Europeo Italia
Una struttura politica, ma non partitica.
'Parlamento rurale' non è una parte formale del governo, né è un parlamento nel
senso di un organo legislativo o decisionale. Si tratta di un processo
'bottom-up' di coinvolgimento e dibattito tra il popolo rurale e politici, per
consentire una migliore comprensione, politica più efficace e di azione per
affrontare le questioni rurali.
Un Parlamento rurale è un processo che fornisce opportunità per le persone con
un interesse per le comunità rurali per condividere idee, prendere in
considerazione i problemi e le soluzioni. Il Parlamento rurale permette a
persone e decisori di lavorare insieme su questioni prioritarie per sviluppare
soluzioni nuove e creative. Rafforza la voce delle comunità rurali e li aiuta a
influenzare le decisioni che le riguardano. Il suo successo in Europa negli ultimi
20 anni ha ispirato l'avvio di un Parlamento rurale in ogni stato.
Dopo il formale
riconoscimento da parte del Parlamento Rurale Europeo (ERP), l’ERP-ITALY sta
lavorando per pianificare e organizzare la sessione inaugurale che avrà luogo
nella primavera del 2023.
Chi può partecipare al Parlamento
rurale?
I membri possono essere organismi,
istituzioni, organizzazioni pubbliche e private, associazioni, GAL, reti
informali, singoli individui, ecc., che hanno a che fare, a vario titolo, con
le politiche di sviluppo rurale (es.: agricoltura e agroalimentare,
artigianato, cultura, turismo, MPMI, paesaggio rurale, servizi socioeconomici,
socioambientali e socioculturali rurali, ecc.), purché non legati da alcuna
forma di controllo o dipendenza ad enti governativi.
Puoi segnalare il tuo interesse ad aderire alla sezione italiana del Parlamento Rurale Europeo compilando il form on-line disponibile
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