mercoledì 18 dicembre 2024

Linguaggio e vite: una storia millenaria.


Giuliana Cattarossi, Giovanni Colugnati

Colugnati&Cattarossi, Partner Progetto PER.RI.CON.E.


Nella glottocronologia (una branca della linguistica che studia i rapporti cronologici fra le varie lingue) la parte settentrionale della Mezzaluna fertile è anche considerata la terra d’origine di tutte le lingue indoeuropee. Utilizzando dei metodi computazionali all’avanguardia già sperimentati nella biologia evolutiva, Gray e Atkinson (2003) hanno ricostruito l’albero genealogico ipotetico delle lingue, trovando indizi convincenti che dimostrerebbero come tutte le lingue indoeuropee si siano sviluppate circa 8700 anni or sono partendo dalla lingua (oggi estinta) degli Ittiti, un antico popolo dell’Anatolia sudorientale. Più precisamente, circa 9500-8000 anni fa, da quella regione dell’Anatolia cominciarono a diffondersi le varie lingue indoeuropee, seguendo di pari passo la diffusione dell’agricoltura, il che dimostrerebbe come la Mezzaluna fertile si possa considerare anche la culla della civiltà moderna.


Pare, infatti, che in quel periodo nell’Anatolia sudorientale sussistessero tutte le condizioni favorevoli per dar vita alla domesticazione della vite e alla produzione del vino. Inoltre, analizzando la parola “vino” e i suoi corrispondenti nelle maggiori lingue indoeuropee tradizionalmente legate alla viticoltura, si nota che tutte le accezioni derivano da una radice comune proto-indoeuropea - la lingua che si ritiene fosse parlata dalle prime popolazioni transcaucasiche e dell’Anatolia orientale – ossia *woi-no, *win-o o *wie-no. Ma anche le lingue non indoeuropee, come quelle kartveliane (Georgiano e Mingrelico), quelle semitiche (Accadico, Ugaritico ed Ebraico antico), e camito-semitiche (Egizio antico), lasciano intravedere una radice comune ancora più remota e al momento sconosciuta, benché fra queste lingue non ci sia alcun collegamento semantico. Ciò nondimeno, alcuni autori georgiani affermano che la radice più antica della parola “vino” sarebbe il Kartveliano ɣvino/ღვინო, un termine tuttora utilizzato nel Georgiano moderno, e questa sarebbe una prova inconfutabile che la Georgia sia la culla della viti-vinicoltura (Gamkrelidze e Ivanonv, 1990).

Probabilmente non lo sapremo mai con esattezza, ma le analisi dei reperti archeologici di uva e delle antiche anfore potrebbero fornire qualche indizio. I reperti di vite o uva rinvenuti negli scavi archeologici sono di solito dei semi carbonizzati e frammenti di legno bruciacchiati, che raramente consentono di distinguere fra sottospecie selvatiche (silvestris) e coltivate (vinifera). I semi della vite selvatica di solito appaiono rotondi e con un becco corto, mentre quelli della sottospecie coltivata sono più a forma di pera, con un becco ben sviluppato (Stummer 1911; Terral et al. 2010), ma purtroppo il processo di carbonizzazione e l’enorme variabilità all’interno delle due sottospecie fanno sì che la mera morfologia dei semi non si possa considerare una caratteristica distintiva sicura Jacquat e Martinoli 1999; Zohary e Hopf, 2000). Di semi carbonizzati di vite ne sono stati rinvenuti in molti scavi archeologici sia in Europa (Grecia, ex Jugoslavia, Italia, Svizzera, Germania, Francia e Spagna) (Rivera Nunez e Walker, 1989), sia nell’Asia minore (Zohary e Hopf, 2000), ma è assai probabile che questi reperti antichi provengano da acini di uva selvatica che si raccoglievano molto prima della domesticazione della pianta. Secondo l’ampelografo georgiano Revaz Ramishvili, sei semi di 8000 anni rinvenuti nel sito neolitico di Shulaveris-Gora sulle colline a Sud di Tiblisi – uno degli insediamenti permanenti più antichi conosciuti in Georgia - hanno la forma caratteristica della sottospecie coltivata, e potrebbero costituire una prova dei primi semi addomesticati di Vitis vinifera subsp. Vinifera (McGovern 2003), ma la possibilità di identificare in modo affidabile questi reperti carbonizzati è ancora controversa. Per gli archeobotanici Daniel Zohary e Maria Hopf (2000), i semi di uva rinvenuti nel sito dell’Età del bronzo (ca. 5700-5200 anni fa) di Tellesh-Shuna (Giordania settentrionale) costituirebbero la più antica prova convincente della coltivazione della vite, poiché la sottospecie Vitis vinifera silvestris non è presente nella Giordania di oggi. Tuttavia, benché sia piuttosto improbabile che queste regioni oggi così aride, cinque o seimila anni orsono fossero un habitat idoneo alla vite, si potrebbe obiettare che potrebbe essere scomparsa dal territorio solo in tempi recenti.

Molto meno opinabili, invece, sono i reperti rinvenuti in diversi siti archeologici risalenti alla prima Età del bronzo (circa 5400-5200 anni fa) a Gerico (Palestina), Lachish (Israele), Numeira (Mar Morto, forse l’antica Gomorra), Arad (Israele) e Kurban Höyük (nei pressi di Urfa, nella Turchia meridionale), dove sono stati riportati alla luce non solo semi carbonizzati, ma anche frammenti di tronco di vite bruciacchiati e interi acini essiccati, da cui emergono prove affidabili della coltivazione di queste piante (Zohary e Hopf, 2000). Tuttavia, i primi tentativi di coltivazione della vite devono essere molto più antichi rispetto a questi reperti, visto che le prime prove chimiche della presenza di vino risalgono al sesto millennio avanti Cristo. Utilizzando la spettrometria a raggi infrarossi per rintracciare la presenza di acido tartarico nei depositi delle anfore (una sostanza che dimostra la presenza di uva), l’enoarcheologo Patrick McGovern e altri autori (1966) hanno scoperto che il vino veniva già prodotto intorno a 7400-7000 anni fa a Hajji Firuz Tepe (Iran settentrionale, monti Zagros), una zona collocata nella fascia più periferica dell’area di distribuzione attuale della vite selvatica. Le anfore in questione provengono da una residenza del Neolitico, dove giacevano sul lato, interrate nel pavimento della “cucina”, ed erano provviste di tappi di terracotta, il che dimostra che contenevano vino, e non mero succo d’uva. A questo vino – probabilmente simile alla Retsina greca – si aggiungeva della resina come conservante. Altre tracce di vinificazione sono emerse da analisi chimiche eseguite su alcuni campioni prelevati nel sito di Shulaveris-Gora in Georgia. In tempi molto recenti, gli scavi condotti in un sotterraneo di Areni, nell’Armenia sudorientale, hanno rivelato la presenza del più antico impianto di vinificazione mai scoperto sul Pianeta, un reperto confermato da analisi di cromatografia liquida e spettrometria di massa, risalente alla prima Età del rame, ossia a circa 6000 anni fa (Barnard et al. 2011).


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