giovedì 19 dicembre 2024

Origine e domesticazione della vite in Italia.

 


Giuliana Cattarossi, Giovanni Colugnati*

Colugnati&Cattarossi, Partner Progetto PER.RI.CON.E.

 

La coltivazione della vite in Italia meridionale sembra risalire, con piena corrispondenza tra dati letterari ed archeologici, alla media età del Bronzo (intorno alla metà del II millennio a.C.) ed all’arrivo del mitico popolo degli Enotri (non a caso definiti da un nome derivante dal greco oĩnotros, “paletto da vino”), mentre fin dall’avanzata età del Bronzo appare ben attestata in Italia settentrionale solo la coltivazione di uva selvatica nelle vicinanze degli insediamenti, per scopi alimentari e per una probabile integrazione zuccherina delle bevande fermentate ricavate dal succo di bacche (corniolo, sambuco, mora di rovo) e frutti (sorba), come indiziato dagli stessi rinvenimenti archeologici. 

E' possibile che, soprattutto a partire dalla zona dell'alto Adriatico, il commercio dalla Grecia micenea e protogeometrica (XIII-X secolo a.C.) abbia incoraggiato ed indirizzato, eventualmente, l'utilizzo ed una prima selezione finalizzata all’ingentilimento delle uve selvatiche locali, ma ancora all'inizio dell'età del Ferro (IX secolo a.C.) la diffusione della viticoltura in Italia doveva risultare sostanzialmente limitata all'Italia centro-meridionale, indipendentemente dal progressivo diffondersi del consumo e del commercio del vino attestato soprattutto nei centri marittimi. Tale situazione è evidentemente connessa alle differenze climatiche ed alla complessità e lunghezza del processo di selezione, innesto ed adattamento al clima continentale europeo dei vitigni, visto che l'Italia settentrionale non sembra differenziarsi come risultanze archeologiche dal resto dell'Europa temperata e l'Italia centro-meridionale dimostra anche in questo aspetto, come la penisola iberica, la sua stretta appartenenza alla fascia climatica mediterranea.

Con l'inizio dell'età del Ferro, e in particolare dopo l'VIII secolo a.C., un clima più asciutto, un progressivo consistente miglioramento della temperatura nelle stagioni intermedie e l'attenuazione delle punte fredde nella stagione invernale agevolano potenzialmente la diffusione della viticoltura anche in Italia settentrionale. L'evoluzione delle tecniche e l'ingentilimento dei vitigni selvatici da parte dei centri indigeni hanno nel frattempo reso disponibile i presupposti tecnici fondamentali per un salto di qualità nelle coltivazioni, ma un ruolo evidente nell'adattamento della vite coltivata in Cisalpina, con la predisposizione di varietà e tecniche colturali innovative, sembra concordemente assegnato sia dalle fonti storiche che dai dati archeologici agli Etruschi.

Infatti, a partire dall’Emilia, nella prima età del Ferro in tutta la Cisalpina emerge il progressivo diffondersi della viticoltura; non solo i corredi tombali vedono moltiplicarsi il vasellame d'evidente carattere potorio, non giustificato su quella scala dal solo vino di importazione, ma diventano frequenti i reperti paleobotanici di vite coltivata. Risulta a proposito molto eloquente l'indicazione pliniana (Nat. Hist., XIV 39) che segnala la diffusione preferenziale a Modena ancora in età romana del vitigno dell'uva "perugina"; si tratterebbe dunque di una testimonianza diretta di ambientazione in Cisalpina di vitigni etruschi che, già acclimatati in zone interne ed appenniniche, potevano risultare più adatti ad affrontare i rigori del clima padano.

Se Castelletto Ticino sembra documentare finora le più antiche importazioni di anfore vinarie dall'Etruria meridionale in Piemonte già alla fine del VII/inizi del VI secolo, attraverso un percorso marittimo e fluviale che valicava gli Appennini presumibilmente lungo una direttrice tra la Versilia e l'Emilia occidentale, analisi paleobotaniche sembrano indiziare che a partire dalla fine del VII secolo gli abitati di Castelletto ospitino già vite coltivata.

E’ ipotizzabile un collegamento tra queste prime sperimentazioni e la diffusione immediatamente seguente in tutto il Novarese ed il Milanese della viticoltura secondo la tecnica etrusca dell’alteno o alberata (arbustum gallicum): nel corso della seconda età del Ferro ed in età romana i dati archeologici si affiancano ad un puntuale riscontro delle fonti storiche e ad una possibile identificazione del vitigno prevalente nel Novarese con la spionia/spinea descritta da Plinio il Vecchio (Nat. Hist. XIV 34), antenata dell’attuale vitigno dello Spanna, della famiglia del Nebbiolo. Appare probabile che questo nome si riferisca ad un antenato dell’attuale Nebbiolo, visto che la testimonianza pliniana precisa che “sopporta il calore e matura alle piogge d’autunno”, è l’unica che “si nutre di nebbia”, produce grappoli più grossi che numerosi. Anche il richiamo in una falsa etimologia al pruno selvatico (spinus) concorda con la similitudine istituibile per la forma dei chicchi e la caratteristica “nebbiolina” (prüina) di cui i chicchi, come le susine, sembrano “nutrirsi”, che ha portato per lo spanna novarese alla definizione ossolana di Prunent. Questo antico vitigno, più generalmente assimilabile alla gallica di Plinio (Nat. Hist. XIV 39), appare dunque originato da una selezione particolare con innesti probabilmente di uve centroitaliche operata dagli Etruschi tra VII e V secolo a.C.

Con il pieno V secolo la situazione appare ormai nettamente definita: la definizione di tipologie nuove e molto particolari di bicchieri, senza alcun legame il vasellame potorio del servizio da banchetto greco ed etrusco, presente solo in poche tombe principesche golasecchiane fin dal VII secolo, appare significativa per il possibile collegamento al consumo diffuso di una bevanda alcolica che dovrebbe essere con ogni probabilità il vino di produzione locale, essendo queste forme male associabili dal punto di vista della capacità e dell’ergonomia al consumo di birra. La rarità di anfore di produzione locale non rappresenta un elemento ostativo, essendo la viticoltura cisalpina già nella seconda età del Ferro, come attestato dalle fonti a partire dal II secolo a.C. e con grande evidenza nei rilievi funerari di età romana, legata all’uso della botte in legno di quercia; d’altra parte in realtà si registrano in effetti casi isolati ma eloquenti di attestazioni di anforacei locali, spesso mal riconoscibili nella frammentazione dei materiali di abitato. Un esempio incontestabile appare la piccola anfora di una tomba di Lumellogno (frazione di Novara), databile intorno al 450 a.C., la cui forma discende dalle anfore vinarie etrusche arcaiche importate a Castelletto Ticino tra la fine del VII ed il VI secolo, anche se il fondo piatto e la limitata capacità (stimabile in circa 3 litri) la caratterizzano più come recipiente per conservazione e decantazione che come anfora da trasporto; questa forma deve avere avuto una lunga tradizione nel Novarese se la si ritrova poco modificata nella tomba 49 di Gravellona Toce, databile a tarda età romana.

https://enologia.blog/author/giovannicolugnati/ 

 

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